lunedì 7 marzo 2016

Breathe Again

**Note di Aly
Buongiorno a tutte! So che molte di voi vorrebbero che continuassi ad aggiornare all'infinito Grido nel silenzio, ma per poter continuare quella storia mi serve calma e concentrazione, perchè voglio rendere ottimo ogni capitolo ed ogni sensazione. Alla fine quella storia vi deve coinvolgere, vi deve prendere, togliere il fiato e far tremare le ginocchia. Ho bisogno di tempo.
Ma non voglio lasciarvi senza niente da leggere. Magari qualcuna di voi ha già letto queste storie perchè avevo messo il link per il blog del contest, magari no. Così ho deciso di pubblicarla anche qui e di farvela conoscere.

Qualcosa su questa storia?
Ha partecipato al contest dell'elemento Aria del gruppo di cui faccio parte su Facebook. E sono arrivata seconda grazie a tutte le persone che hanno votato questa storia e che l'hanno trovata valida, emozionante e meritevole del loro voto. Sono orgogliosa di questo testo e delle emozioni che ha suscitato in chi l'ha letta. Spero che vi regali le stesse sensazioni.

Ci vediamo nelle recensioni.
Come sempre buona lettura,
Aly**



 
Copertina e di seguito la targa premio
 
 



 


BREATHE AGAIN


Fisso l’ora sul mio orologio in quello che è diventato, oramai, un tic.
Alzo il braccio, lo muovo in avanti in modo che la maglia e la giacca in pelle salgano dei centimetri giusti per mostrarmi le lancette. I miei occhi scendono a leggere l’orario e, come sempre, si fissano su quell’orologio donatomi tanti anni fa e a cui sono particolarmente legato. Come ho detto, è più un tic per osservare quel pezzo di metallo che fa parte della mia vita da molto tempo. È un regalo di Bella, è come un portafortuna, un ricordo, un pezzo di cuore che resterà sempre con me.
Sono in volo da cinque ore e non vedo l’ora di atterrare. È sempre così quando non sono io il pilota.
Non è che non mi fidi di chi c’è in cabina di pilotaggio, no davvero, è solo una sensazione strana, come se non arrivassimo mai, come se il tempo si congelasse mentre sei sospeso in aria. Sarà che ogni volta che sono un passeggero è perché sto volando verso casa mia e il tempo sembra non trascorrere mai! A dir la verità, sono il trasportato anche quando riparto, ma in quel caso le ore sembrano secondi; mi sbattono in faccia quanto sia facile allontanarmi dalla mia terra, dalla mia casa e dalla mia famiglia.
«Signore, vuole qualcosa da bere?» L’hostess con il carrellino mi sorride maliziosamente. Mi ha adocchiato da quando sono entrato nella cabina passeggeri; ogni volta che passava lungo il corridoio tra i sedili mi lanciava un’occhiata sperando che ricambiassi il suo sorriso lascivo e che magari la invitassi a passare con me la notte, una volta atterrati a Vancouver. Povera sciocca.
Se un tempo le avances delle ragazze mi inorgoglivano, ora mi lasciano solo divertito, semplicemente divertito. Mentre anni fa avrei esultato se una ragazza carina avesse puntato i suoi occhi su di me, se avesse mosso lei i fili dei giochi, oggi non vedo l’ora di fuggire a quegli sguardi.
«Un succo al pompelmo, grazie!» Mi guarda sospettosa e sorpresa della mia ordinazione. So bene di sembrare un omone cattivo, più dedito alla birra o qualche drink alcolico piuttosto che un banale e leggero succo di frutta. Non sono mai stato uno da sbronze il sabato sera e quando ho iniziato il lavoro ho cercato di bandirlo quasi totalmente dalla mia vita.
«Avrei detto che preferisse tre dita di Whiskey.» Mi scappa una risata ricordando una conversazione simile di molti anni prima, in un altro luogo, con una ragazza completamente diversa.

«Una birra bionda, poco alcolica, per favore!» La ragazza dietro al bancone mi scruta con i suoi occhi carichi di sgomento.
«Sei sicuro? Avrei detto che preferissi tre dita di Whiskey invecchiato con ghiaccio!» Scoppio a ridere e lei mi sorride maliziosa.
«Devo guidare, ho appena preso il brevetto di pilota d’aerei e sono stato accettato all’accademia militare. Non posso fare cazzate!» Ridacchia e mi passa una bottiglia di birra che non conosco. Il mio sguardo confuso e curioso la fa ridere e, mi accorgo, è un suono meraviglioso.
«È la mia preferita, non sono una che regge bene l’alcool e l’ho scoperta da quando lavoro qui. Ovviamente non la beve nessuno dei presenti a parte me. Ma due di queste non fanno neppure la gradazione di una bionda alla spina. Fidati di me!» Strizza l’occhio sinistro mentre pulisce parte del bancone al mio fianco.
«Sei in gamba per essere una ragazza!» Mi guarda allargando gli occhi più che può e solo in quel momento mi rendo conto che la frase, probabilmente, è uscita peggio di quello che volevo dire. «Scusa, mi sono spiegato male. Volevo dire che questo posto è… insomma…» Mi guardo attorno e le indico con la testa gli uomini mezzi ubriachi che urlano e guardano la partita di football nel grande televisore. «Come sei finita a lavorare qui?»
«È solo un lavoro serale che mi permette di studiare e di mantenermi indipendente!» Mi risponde dopo aver consegnato l’ennesimo boccale di birra a due uomini massicci e puzzolenti.
«Cosa studi?» Non sapevo ancora per quale motivo, ma volevo conoscerla.
«Architettura.»
«Wow! Progetti palazzi?»
«Una cosa del genere!» Sbuffa ridendo.



Mi riscuoto da quei ricordi solo perché l’hostess tossicchia per riportare la mia attenzione su di lei. So che vorrebbe tutta la mia attenzione, ma nessuna donna, al momento, riuscirebbe a spostare lei dalla mia mente. Mi accorgo delle sua mano che mi porge un bicchiere colmo di ciò che ho richiesto, mentre con l’altra cerca di tirare più giù che può la camicetta della divisa. Scusa carina, ma non ho tempo per te.
«Sei sicuro che non vuoi… altro?» Mormora abbassandosi verso di me, seducentemente e passando al tu informale.
Imbarazzato per i suoi tentativi, che non sfondano nessuna porta con me, mi schiarisco la voce e immediatamente mi scappa una risatina.
«Sono certo di non volere altro.» Parlo chiaramente, senza allusioni sessuali e fissandola negli occhi. Sgomenta si rialza e prosegue con il suo carrello verso gli altri passeggeri in coda. Rido tra me e vorrei tanto poter mandare un messaggio a qualcuno che riderebbe di queste avances, ma siamo in volo e dovrò semplicemente aspettare. Che noia.
L’attesa mi mette sempre di malumore, però mi lascia del tempo per ricordare, cosa che non riesco a fare spesso con tranquillità.



«Cosa ne dici se una sera di queste ti invitassi a cena?» Getta la spugna sciacquata sul bancone e pulisce dove i precedenti clienti hanno fatto un disastro.
«Dico che è meglio se giri a largo, Marines!»
«Non sono un Marines!» Rido e le nasce quel sorrisino sul volto che ho imparato ad amare. È l’ennesima sera, dell’ennesima settimana che passo in questo covo di alcolizzati solo per parlare con lei, solo per stare qualche ora in pieno relax.
«Allora, ci vieni a cena con me?»
«Naaa, sono troppo impegnata a servire birra a questo branco di zucconi!» Scrolla le spalle e riempie le ciotole di noccioline.
«Dai, non farti pregare!» Tiro fuori le banconote dalle mie tasche e le appoggio di fianco alla bottiglia ormai vuota.
«Marines, torna nei tuoi alloggi, ci vediamo domani!»
«Non sono uno che molla, ricordalo!» Sorride e mi saluta con la mano mentre io mi allontano.



****

«Non ci credo che sei qui anche stasera!» Sbotta incredula dopo avermi servito la solita birra leggera.
«Credici. Sono qui davanti a te, in carne e ossa!»
«Lo vedo, Marines!»
«Piantala di chiamarmi così!» A dir la verità un po’ mi fa incazzare. «E vieni a cena con me!» Scoppia a ridere e scuote la testa. Dannazione a lei. Non ho mai fatto fatica a invitare una donna a passare del tempo con me!
«Okay, cosa vuoi che faccia?» Mi guarda confusa.
«In che senso?»
«Per farti dire sì, cosa vuoi che faccia? Devo mettermi a ballare tra i tavoli, esultare come un alcolizzato perché una squadra ha segnato un punto, devo comprare un megafono e chiederti un appuntamento in mezzo alla strada? Scrivere su un maledetto lenzuolo con le bombolette spray?» Sbotto frustrato. Sì, sono frustrato. «Ci provo da settimane. E la tua risposta è sempre-»
«No, Marines!»
«Infatti!» Esplodo battendo la mano aperta sul bancone, un secondo dopo che lei mi interrompe. «E non sono un dannato Marines!»
Lei ride ma questa volta la sua allegria non arriva agli occhi.
«Dimmi perché dici sempre no.»
«Perché sei un dannato Marines, perché sei un pilota dell’Air Force che finito il corso di addestramento verrà selezionato per qualche missione che ti porterà lontano da Vancouver, ti metterà in pericolo e mi farà morire di paura. No grazie, Marines!» Lo dice sorridendo ma ancora una volta i suoi occhi restano seri e determinati a non lasciarsi coinvolgere. La sua fottuta risposta insieme allo sguardo fisso nel mio, quegli occhi che non sorridono e che sono un intruglio di tristezza, malinconia, sapere e determinazione mi fanno arretrare di un passo, sconvolto e abbattuto.
«Non sono un Marines.» Mormoro solamente, girando le spalle e andandomene, troppo sbigottito per poter insistere.




Quella sera non finii la mia birra, per la prima volta, lasciai comunque i soldi dovuti più una sostanziosa mancia ma me ne andai prima del solito. Non era mai capitato.
Se ci penso ora mi viene solo in mente una serie di parolacce pesanti e offensive per il ragazzo che ero allora, che sono stato anche negli anni successivi per motivi diversi. Si è mai visto un cazzo di Marines che molla? No.
Prendo il mio zaino da sotto il sedile e cerco all’interno l’album di fotografie che ci ho infilato dentro prima di partire. Inizio a sfogliarlo e pagina dopo pagina, fotografia dopo fotografia, mi emoziono, mi commuovo e mi innamoro di nuovo. Sono due anni di momenti persi con la mia famiglia: con mia moglie, con il nostro labrador bianco che abbiamo trovato molti anni fa e con i nostri splendidi bambini.
Dio, come mi fa male il cuore.
Emmett ha otto anni, i capelli del castano cioccolato di sua madre e la determinazione a essere un bravo fratello e un bravo ometto. Rosalie, invece, ha sei anni, i capelli bronzei come i miei e gli occhi verdi e birbanti proprio come quelli del suo papà; è la peste di casa, puoi stare tranquillo che nel momento in cui tutto tace tra le mura domestiche, lei ha combinato qualcosa. Alice è la piccolina, adesso ha appena compiuto tre e anni e quando me ne sono andato era solo una pupazzetta che desiderava farsi sentire con quella vocina squillante e le sua grida ipnotiche. Non li vedo da due anni e mi sembra di soffocare dal senso di oppressione che sento dentro, da come mi si stringe il cuore ogni dannato momento in cui ci penso o quando guardo ancora una volta le fotografie che mi sono state spedite. Ho solo questi dannati pezzi di carta che non mi danno nessuna rassicurazione, nessun affetto, nessun calore; sono solo lì a sbattermi in faccia cosa mi sono perso in tutto questo tempo.
Come se non lo sapessi da solo.
Come se non me lo ricordassi ogni secondo della mia giornata infinita.
Ormai avevo solo i ricordi a tenermi compagnia laggiù e, spesso, neanche servivano perché ero talmente stanco e sfibrato che chiudevo gli occhi senza parlare con nessuno.



«Non so quale miracolo sia stato compiuto per farti dire di sì, ma non sprecherò l’intera serata a nostra disposizione restando fermi davanti a questo pub. Andiamo!»
Lei ride e sale in macchina, dopo averle aperto lo sportello da vero gentiluomo e averle porto la mano per aiutarla.
«Non è un miracolo. È che sei passato ogni maledetta sera di ogni settimana, per tre interi mesi! O ti denunciavo per stalking o ti dicevo sì!» Rido mettendo in moto la macchina e facendo ridere anche lei. Anche se non sono passato proprio ogni sera, ha perfettamente ragione, sono stato insistente, determinato e persuasivo. A pensarci bene il miracolo è che non mi abbia denunciato! Alla fine non ho mollato.




I momenti della nostra vita si susseguono nella mia mente, in un vortice infinito che mi scalda per pochi istanti e poi mi lascia vuoto e disperato; le fotografie davanti ai miei occhi guardate e riguardate più volte negli ultimi tempi, sembrano mani che mi stringono la gola in una morsa ferrea per il desiderio che sento di correre a casa.


Sento le sue braccia attorno al mio collo e le sue gambe attorno alla vita, tutto il suo peso è su di me, la reggo tranquillamente e niente, negli ultimi tempi, è stato così bello.
«Ti ho già detto che sei bellissima?» Le mormoro a qualche centimetro delle labbra prima di saggiarle la bocca e intrappolarla in un bacio senza fine. La appoggio a terra, per poterla abbracciare meglio, per poterle prendere il volto in mano e accarezzarle le guance infreddolite. Le sue piccole dita ghiacciate stingono la mia maglia sotto il giubbotto, le mie tentano di donarle un po’ di calore sugli zigomi.
«Lo dici sempre.»
«Perché è vero!» Le sorrido baciandole il nasino rosso e freddo.
«Andiamo dentro. Scommetto che non vedi l’ora di bere una cioccolata calda con tanta panna!»
«Oh, veramente ho in mente altro…» Mi strizza l’occhio e cammina all’indietro verso la porta d’entrata, il portico ci ripara dalla neve che sta scendendo da qualche ora e che ha già imbiancato il giardino e pulito l’aria attorno.
«Ti amo piccola!» La prendo in braccio correndo verso l’interno, dimenticando di recuperare il mio zaino dalla macchina.
«Ti amo anche io. E mi sei mancato da impazzire!»



Se solo avesse saputo quanto era mancata lei a me, quanto mi mancava ogni volta che partivo o che le stavo lontano per tutto il giorno.
Era la prima volta che stavo via a lungo da quando eravamo diventati ufficialmente una coppia, due mesi e mezzo di servizio in una base navale vicino alle coste del Giappone e mi sembrava di essere mancato per una vita. Erano passate solo dieci settimane, eppure per una giovane coppia come noi due mesi e mezzo senza vedersi era stato l’abisso. Aveva ragione quella sera al bar: entro poco tempo mi avrebbero affidato missioni lunghe, difficili, pericolose, lontane e lei sarebbe rimasta a casa, da sola. Speravo mi aspettasse, che confidasse nel mio infinito amore per lei e che avesse fiducia in me e nel nostro destino insieme, come ci credevo io. Lei mi aveva avvisato, però. «Non so se ne sono capace, Edward!» Mi disse un pomeriggio mentre eravamo abbracciati al caldo delle nostre coperte.
C’è stata una seconda missione in Sud America, quattro mesi ancora più difficili. Quando sono tornato l’ho trovata dimagrita e angosciata, carica di apprensione e solitudine. La terza missione fuori casa che mi affidarono doveva portarmi lontano da Vancouver per sette mesi, in una base navale in Australia. Quando glielo dissi si emozionò per me, si inorgoglì e mi strinse forte come se davvero fosse felice per me. La conoscevo troppo bene, purtroppo. Sapevo leggere bene i suoi occhi, pieni di ogni più dolorosa emozione: tristezza, malinconia, solitudine. Lessi dispiacere e paura; nel momento in cui mi accompagnò davanti alla base militare prima che partissi riuscii a intravederla sconsolata e persa. Mi sentii morire, conscio che sarebbe stato uno di quei momenti scolpiti a fuoco nella mia mente e nel mio cuore. Sapevo già cosa sarebbe successo, mi sentivo come se mi stessero aprendo il petto a metà e strappando il cuore senza nessuna pena per me.



«Edward…» Le sue mani sono strette attorno al volante, le nocche sono bianche non solo per il freddo.
«Bella…» Mormoro il suo nome dolcemente.
«Ti amo da morire. Ti amo davvero tanto, io spero tu mi creda.»
«Piccola, lo so. Lo so. E ti amo anche io.»
«Questi anni con te sono la cosa migliore della mia vita, sono tutto. Li porterò con me nel cuore per il resto dei miei giorni e…» Me lo sentivo dentro, fin da quelle prime ore del mattino che avevamo condiviso. Lei aveva una strana luce sbiadita negli occhi, come se cercasse di trovare dentro di sé il coraggio per qualcosa che le avrebbe fatto del male. E il coraggio era lì, dentro quella macchina pervasa di profumo alla pesca, quello dei suoi capelli.
«Non sarai qui ad aspettarmi quando tornerò, vero?» Una lacrima scende dal suo occhio sinistro, le piccole dita corrono a spazzarla via per cercare di nasconderla. La mia bambina vuole sempre mostrarsi combattiva.
«Ti amo da impazzire.» Mi dice mentre scuote la testa e il mio petto si squarcia in due.




Non me la sentii di rispondere, né di aggiungere quanto l’amassi io; non feci nient’altro che osservarla per alcuni minuti, mentre lei fissava fuori dal parabrezza il vasto campo di addestramento circondato dal filo spinato. Non riuscii neppure ad avvicinarmi per baciarla un’ultima volta. Quella mattina avevamo speso infiniti minuti sul tavolo della cucina a lasciarci prendere dalla passione, e mi era sembrato così disperato e passionale che aveva mandato in tilt il mio cervello.
Avrei dovuto capirlo in quel momento. Avrei dovuto evitare che mi accompagnasse fino a qui e che troncasse con me pochi istanti prima di imbarcarmi. Avrei dovuto lasciarla a casa mia, ricordandomi di lei in mezzo alle mie cose, nella cucina in cui avevamo condiviso una moltitudine di colazioni e discorsi importanti, di momenti indimenticabili. Avrei dovuto chiudermi la porta alle spalle e fare in modo che potessi abituarmi all’idea di non averla con me mai più, fino a quando fossi arrivato qui davanti con un taxi. Invece me ne sono fregato del mio strano sentore, ho pensato che non l’avrebbe fatto, che ci avrebbe provato ancora una volta, che l’amore che provava per me avrebbe superato anche questo ostacolo e che non avrebbe mai trovato il coraggio per abbandonarmi.
Mi ero sbagliato.
La fissai per un altro lunghissimo minuto chiedendomi come avrei fatto a dimenticarmi di lei e come avrei estirpato dal mio cuore tutto l’amore che provavo per lei, così forte, radicato e potente da farmi capire, nonostante tutto e fino in fondo, il motivo per cui lo stava facendo. Come avrei fatto?
Scesi dalla macchina con lo stomaco stretto in una morsa d’acciaio, le lacrime che minacciavano di uscire furiosamente dai miei occhi e le mani che tremavano dalla voglia di prendere a pugni qualcuno o qualcosa.
Non ero neppure sicuro che il cuore battesse ancora al suo solito ritmo costante.
Scaricai il bagaglio e indossai il cappello della divisa, persi tempo a sistemarlo sul capo per ricacciare le lacrime da dove erano venute prima di andare a fare il mio lavoro. Poi voltai le spalle a quella macchina e camminai mettendo metri di distanza tra noi, passo dopo passo.
Non mi voltai.
Non guardai dentro l’auto così familiare; non la cercai.
Superai il cancello della base militare e camminai, camminai fino ad arrivare alla pista di atterraggio, dove l’aereo ci aspettava per la partenza.
Non mi guardai indietro, mai.
Quando fui su quell’aereo, afferrai il telefono e, per la prima volta dopo molto tempo, cambiai quel maledetto wallpaper con la nostra fotografia e lo sostituii con quello di un aeroplano. Mi presi un attimo, giusto il tempo per guardare i nostri volti sorridenti, per dire a me stesso che entrambi avevamo fatto una scelta: io il mio lavoro, lei la sua vita. Erano inconcepibili insieme, lo sapevamo, eppure faceva male.
Un male cane.
Un male del cazzo.
Serrai gli occhi per alcuni secondi e li aprii, più determinato di prima.
Mi sarei dimenticato di lei, di tutti i nostri momenti insieme, di ogni parola, di ogni emozione, di ogni sospiro sulle sue labbra, del sapore della sua pelle, del colore dei suoi occhi, del profumo dei suoi capelli e di come era bello stare dentro di lei, sentirsi completi, capiti, amati. Volevo scordare ogni cosa. Volevo cancellare lei.
Ero arrabbiato, ferito, distrutto.
Doveva essere la mia forza, la mia roccia, il mio punto di riferimento anche quando ero in missione, soprattutto quando ero lontano da casa; dovevo sapere di avere qualcuno che mi avrebbe aspettato quando sarei tornato. Invece non ne era stata capace.


«Parlavi seriamente, quando quella sera mi dicesti che non volevi accettare di uscire con me perché sarei partito per qualche missione?» Domando mentre le accarezzo i capelli morbidamente appoggiati al mio petto.
«Sì. Mio padre è un militare. È in pensione ora, o per lo meno è così che mi piace pensarlo, è in congedo permanente in realtà. Ferito da un’arma da fuoco alla schiena e paralizzato alle gambe. Il periodo più lungo passato lontano da casa fu di sei anni. L’avevano dichiarato scomparso dopo un’esplosione in missione, ma lui stava bene, aveva solo perso la memoria temporaneamente. Quando quella tornò fece ritorno in patria, a casa, tra le nostre braccia.»
«Capisco…»
«Ma poi ripartì. Non servì a nulla piangere, disperarsi, parlargli e cercare di convincerlo che avevamo bisogno di lui a casa. Un militare è fedele, nonostante le ferite, nonostante le dure lotte, nonostante il dolore, l’orrore, il terrore… indipendentemente da tutto ciò lui è fedele. È qualcosa che non si può spiegare a parole. Mio padre me l’ha sempre detto, sempre. E lo capisco, da una parte l’ho sempre capito. Ma io sono quella che aspetta, prega, ama in silenzio. Sono quella che dall’altra parte del mondo piange e attende all’infinito qualche notizia, una lettera, una mail, un segno. E aspetta la fine di quei lunghi mesi, anni, secoli perché il proprio caro ritorni. Io aspetto. Ma ho già aspettato tanto nella vita e non so se ho la forza di farlo ancora.»




Me lo disse più volte, me lo fece capire, me lo scrisse chiaramente in ogni lettera marchiata dalle sue lacrime, in ogni mail scritta con passione, fervore, malinconia nelle missioni precedenti. Mi amava, ma non riusciva ad aspettare. Non ne aveva più la forza. Quando piloto, indossando il mio casco, la maschera che mi porta ossigeno e quella divisa che pesa sulla mia pelle come se fosse fatta di ferro… penso sempre a lei per un istante. All’epoca mi chiedevo se sarebbe stata fiera di me, se ci sarebbe stata la possibilità per noi di avere un futuro nonostante tutto. Poi torno a concentrarmi. È sempre stato così, anche durante le esercitazioni, quando ancora cominciavamo a conoscerci; i dubbi su noi due sono sempre esistiti e restavano perché ero conscio che la vita di chi resta a casa ad aspettare un militare non è mai semplice.
Quella missione durò più del previsto. Undici mesi. Quando tornai a casa, nella mia casetta bianca con giardino, mi stupii di vedere il dondolo occupato da Bella.
Non era sola. In braccio teneva un fagottino a cui canticchiava una ninnananna. Mi arrabbiai. Mi arrabbiai così tanto che lanciai il borsone sotto il portico, con tutta la forza che avevo, ad un passo da lei.

«Che cazzo ci fai qui?» Mi sorride dolcemente portandosi un dito alle labbra.
«Shhh, o lo sveglierai.» Scrollo le spalle.
«Non me ne frega un cazzo. Vattene. Vattene via.»


Entrai in casa sbattendo la porta alle mie spalle. Mi fiondai sotto la doccia e poi presi una birra dal frigorifero, stupendomi di trovarlo fornito di ogni ben di Dio. Quando guardai fuori dalla finestra lei era ancora lì, a cullarsi su quel maledetto dondolo che aveva visto la nostra dichiarazione d’amore in una sera d’estate di tanti anni prima. Mi fumarono le orecchie da tanto ero incazzato e uscii fuori pieno d’ira. Lei aveva tirato una coperta sulle sue gambe e sul corpicino del piccolo.

«Ti ho detto di andartene.»
«Ti ho sentito.»
«Ma sei ancora qui.» Sputo fuori rabbioso. Lei sposta la coperta e mi fa cenno di sedermi al suo fianco.
«Vieni a sederti, voglio presentarti una persona.»
«Non me ne frega un cazzo, fuori dalle palle!»
«Edward!»
«Edward un cazzo!»
«Sei volgare, arrabbiato e grezzo. Vieni a sederti al mio fianco.»
«Tu non hai nessun diritto di stare qui! Mi hai lasciato mesi fa! Vattene. Vattene e non ritornare più! Non voglio vederti. Non voglio parlarti e non ti voglio nella mia proprietà!» Le parole dure con cui mi rivolgo a lei sono cattive e taglienti, la feriscono, ma soprattutto deludono me. Alza lo sguardo su di me, determinata e seria. Io sembro solo un pazzo che grida sotto un portico.


Ero ferito, deluso, arrabbiato. Ero molte cose quel giorno.
Non ero attento, invece. Non ero sereno. Non ero cordiale. Non ero gentile. Eppure lei non se ne andò. Mi fece segno di raggiungerla, nuovamente, e io la ignorai, tornando dentro casa. Salii i gradini di fretta fino a correre, quasi, lungo il corridoio e dentro la mia camera. Il piano era quello di gettarsi sul letto e ignorarla, mettendo più distanza possibile tra noi, tanto prima o poi se ne sarebbe andata e tornata a casa propria. Tornai indietro, però, confuso nel vedere una porta semiaperta. Era la camera degli ospiti e quando vi entrai restai allibito. Il letto matrimoniale era sfatto, le lenzuola ripiegate in un’onda strana solo da una parte. Una culla era posizionata di fianco al letto, vicino alla finestra. Sulla poltrona erano sistemati dei vestiti da donna, un fasciatoio era stato messo nell’angolo vicino alla finestra, il comò era pieno zeppo di ogni prodotto di sorta: salviettine, bagnoschiuma, profumi, creme, di tutto.
L’ira mi sconvolse e scesi di sotto fuori di me, gridando ingiurie a pieni polmoni. Aprii la porta e la vidi con un sorriso sereno sul volto rivolgersi verso di me.



«Possiamo parlare ora?» Mi chiede con quel suo sorriso che volevo disperatamente cancellare perché mi ferisce riportandomi ad un passato che non posso riavere.
«Sì, spiegami perché cazzo c’è la camera degli ospiti di casa MIA occupata dalle TUE cose e dalle cose del TUO bambino!» L’accuso puntandole il dito contro.
«Se ti calmi possiamo parlare!»
«Io non mi calmo! Sono furioso. Sono incazzato come una bestia. Sono fuori di me! Questa è casa MIA! È MIA, NON TUA!» Grido e queste parole la scuotono, la fanno rabbrividire nonostante le coperte, la feriscono come non l’ho mai ferita. Tempo fa le avevo detto di considerare casa mia come se fosse sua, nostra; lei mi aveva sorriso e avevamo fatto l’amore aggrappati al muro d’entrata. Scaccio quel ricordo, furioso con me stesso. «Tu hai detto che non mi avresti aspettato. Sei andata avanti con la tua vita. Sono tornato e te ne devi andare!» Sputo veleno senza accorgermi che sto diventando sempre più stronzo. L’arrabbiatura che è esplosa non so da dove venga.
«E tu? Sei andato avanti con la tua vita?» Mi chiede in un mormorio mentre sistema la copertina al bambino.
«Sì, ti ho dimenticata. Perciò vattene!»



La vidi sorridere. Sorrise davvero e il cuore fu intrappolato in una morsa ancora più dolorosa. Era il dolore più forte possibile. Nonostante fossi un cazzo di militare non ero pronto a quel malessere. Ero pronto a sentirmi dire che non mi avrebbe aspettato, ero pronto a sentirmi dire che si era rifatta una vita, che mi aveva dimenticato ma rivederla, stare con lei a stretto contatto, sentire quel maledetto profumo di pesca e quell’odore di neonato che… Mi fece impazzire. Lo stress per la missione appena finita, il dolore, la rabbia per aver visto che lei era andata avanti, che aveva un figlio, che stava in casa mia senza nessuna logica e che io non l’avevo affatto dimenticata mi fece diventare pazzo. Gridai, la cacciai, le dissi cose che avrei voluto cancellare un secondo dopo averle dette… eppure se ne stava lì a fissarmi, a lasciarmi sfogare, a subire tutte quelle pallottole verbali che mi uscivano a mitraglietta. Gli occhi le diventarono lucidi solo verso la fine delle mie accuse, ma non pianse. Mi fissò sorridendo, con l’espressione colpevole, confusa, malinconica, triste, delusa. Allo stesso tempo c’era una luce, che sembrava speranza. Imperterrita mi chiese di sedermi su quel dannato dondolo. Mi sorpresi di saperla leggere ancora così bene, dopo tutto quel tempo; non era per niente tranquilla come voleva mostrarsi.

«Ti sto pregando Edward, siediti al mio fianco. Ho ascoltato te, le tue accuse, le tue parole grosse. Ora per favore siediti qui e ascolta me. Poi se vorrai me ne andrò.»
«Vattene ora, così risparmiamo tempo.»
«SIEDITI QUI!» Scoppia d’un tratto urlando. Il bambino inizia a piangere e lei comincia a cullarlo e a mormorare una ninnananna dolcissima. Lo troverei tenero e amorevole se non fossi così fuori di me.


L’ascoltai e presi posto al suo fianco, su quel dondolo che ne aveva viste di tutti i colori fin dall’inizio della nostra storia. E ancora una volta fu testimone di qualcosa di magico.



«Hai ragione, non ti ho detto che non ti avrei aspettato. Ti ho lasciato mesi fa perché ero sicura di non riuscire ad aspettare il tuo ritorno, di non farcela. E per un attimo ci ho creduto talmente tanto che non mi sono pentita di averti detto quelle cose, di averti lasciato.» Mi guarda dritta negli occhi mentre parla. «Poi, però, un giorno successe qualcosa. E la mia vita prese ad andare avanti in modo veloce, come un aereo che cade in picchiata con il motore rotto.»
«Non fare paragoni-» Mi blocca con una mano.
«Non ti ho interrotto, ora tu non interrompere me.» Alzo le spalle, certo che quello che dirà non cambierà nulla. «Ho scoperto di aspettare lui…» Dice con voce chiara posando un ditino sul naso del piccolo.
«Ti sei ripresa in fretta!»
«Ho scoperto di essere incinta due settimane dopo che sei partito, sono andata a fare un esame del sangue di controllo prima di poter donare il sangue come faccio di solito. Hanno visto che c’erano dei valori sballati e mi hanno dato quella magnifica notizia. Ero incinta, di sei settimane.» Mormora alzando le sopracciglia e sorridendomi.
«Che?»
Mi passa il fagottino tra le braccia, non mi rendo neanche conto di stringerlo naturalmente, come se fossi nato per tenere quell’esserino tra le mie braccia muscolose. Le sue mani restano saldamente ancorate a me, per avere un contatto e credo per essere pronta nel caso in cui il bimbo scivolasse dalle mie braccia per lo shock. Con voce dolce come il miele mi sconvolge la vita.
«Bentornato a casa Edward, ti presento Emmett, tuo figlio.»


Scoppiai in lacrime e parlammo fino a perdere la voce. Non mi aveva contattato perché sapeva che sarei voluto tornare a casa, non mi aveva contattato perché sapeva che sarei stato arrabbiato con lei. Aveva una paura fottuta. Ma era certa che una volta tornato a casa non avrei mai potuto rifiutare mio figlio o rinunciare a un rapporto con lui, per niente al mondo. Mi conosceva bene, ha sempre saputo leggermi fino in fondo, cercare nei miei occhi una risposta ancora prima di farmi la domanda. È sempre stato così con lei, è sempre stato intenso e profondo il nostro rapporto.
Ero sempre emozionato quando mi trovavo su un aereo, attorno al nulla totale ma sopra a vastissime zone da sorvegliare, bombardare, proteggere. In aria mi sentivo un campione, mi sentivo importante, utile, mi sentivo potente, quasi invincibile. Sì, è un po’ da presuntuosi, ma devi crederci per salire ogni giorno dentro quell’aggeggio e spararti a velocità inaudite nel cielo. Mi sentivo potente per quelle popolazioni che ringraziavano i miei compagni di terra quando entravano nelle case per liberarli, mi sentivo invincibile quando riuscivo a portare il mio culo alla base e mi sentivo un grande quando mia moglie mi guardava orgogliosa dall’altro lato del divano. Era una bella sensazione. Ma era niente paragonato alla sensazione di avere tra le braccia mio figlio.
Passai tutta la sera e i giorni seguenti a coccolare Emmett, in ogni momento della giornata e venivo ripagato da smorfie buffe e baci amorevoli di Bella. Mio figlio, improvvisamente, era diventato il centro del mio mondo, avevamo una famiglia ed era tutto nuovo e bellissimo.
Ci sposammo dopo tre mesi, dopo aver chiesto scusa a vicenda, dopo aver riconosciuto mio figlio e avergli dato il mio cognome, dopo aver stretto tra le braccia il mio tesoro più grande, la mia famiglia, numerose e consecutive sere senza sentire il bisogno di lavorare. Ci sposammo in una chiesetta minuscola, con pochissimi invitati e con nostro figlio che pretendeva l’attenzione tutto il tempo, ma eravamo felici e niente era più importante di quel momento.
Poi ci fu un’altra missione e quando tornai per restare quasi un anno a casa, nacque Rosalie. Prese i miei capelli e il tic nervoso di passarsi le mani tra i riccioli morbidi, fin da piccola. Una bambina per la quale c’era solo da impazzire.
Da quel momento, però, la mia vita divenne un susseguirsi di eventi in parte catastrofici che rovinarono la quiete e l’equilibrio del nostro matrimonio. I bambini avevano la necessità di avermi al loro fianco, mia moglie anche, ma io non ero disposto a fermarmi, a rinunciare al mio lavoro e alle missioni per stare a casa. La novità del matrimonio, due figli e una casa da gestire iniziavano a diventare pesanti da sopportare; sentivo dentro la necessità di uscire sempre più spesso, telefonare ai miei compagni, offrirmi per dei lavori alla base e sentire se c’era bisogno di partire. L’adrenalina che sentivo quando volavo era unica, il momento in cui indossavo la mia tuta e allacciavo il casco insieme alle cinture di sicurezza del sedile di pilotaggio mi mancava. A mancarmi era anche il timore e la paura di quando accendevo i motori e partivo, rullando sulla pista per poi sfrecciare sferzando l’aria. Mi mancava la sensazione di guardare in basso e sentirmi potente, di destreggiarmi come un campione tra i rilievi montuosi… Ero un fottuto militare, sentivo di non aver ancora dato tutto. Dentro di me si muovevano strane sensazioni, le più forti sicuramente erano queste. Dall’altra parte, una piccola fetta di tutto ciò che mi ronzava dentro, era il senso di colpa. Nelle mie missioni avevo incontrato soldati che avrebbero pagato oro pur di tornare a casa e restarci per un po’, godendosi la famiglia e i figli che sentivano tramite skype o di cui ricevevano saltuariamente qualche lettera. Sapevo, dentro di me, che voler partire, desiderare ardentemente di allontanarmi da casa, era sbagliato e che non stavo apprezzando quello che avevo. Ero combattuto e irascibile. Quindi iniziarono le liti, i pianti, la disperazione di Emmett e gli occhi vitrei di mia moglie ogni volta che il telefono squillava. Avevano il terrore che mi convocassero e che dovessi partire, e quando loro piangevano e si arrabbiavano per questo motivo io gli gridavo contro che era il mio lavoro e che non potevano impedirmi di partire. Ero proprio uno stronzo. Non mi meritavo di avere una famiglia così affettuosa e bella come loro. Come se non bastasse il tumulto interiore che sentivo e due figli piccoli da gestire in quelle condizioni, Bella rimase incinta ancora una volta, nonostante la nostra vita sessuale fosse diventata scarna, quasi insapore. Nacque Alice otto mesi più tardi e fu il caos. Emmett aveva cinque anni e la piccola Rose solo tre. La base non mi chiamava, con la notizia della nuova arrivata a casa i miei superiori decisero di chiamare un altro pilota al posto mio, anche lui a casa da molto tempo.
I bambini crescevano ma non capivano ancora, ovviamente, che Bella aveva bisogno di tranquillità, di spazio, di tempo. Suo padre non poteva darle una mano e l’unica amica di cui mia moglie si fidasse era impegnata con il lavoro. Di conseguenza, nel momento in cui il generale mi chiamò, rinunciai a una missione, per il senso di dovere verso la mia famiglia.
Dopo solo qualche mese mi accorsi di come le cose iniziavano a starmi troppo strette. Diventai ancora più irascibile, cattivo, prepotente e facevo solo impaurire i miei figli. Si chiudevano in stanza, in silenzio e non si muovevano; quando c’ero io in una stanza mi stavano lontani, non mi rivolgevano la parola e tendevano a lanciarmi occhiate preoccupate ogni volta che mi avvicinavo. Non avevo mai alzato le mani su di loro, ma alzavo la voce e mi arrabbiavo sempre più spesso. A tavola non volava una mosca, non raccontavano più dei loro momenti all’asilo, né degli amichetti al parco. Niente. Ero diventato l’orco cattivo che li metteva in punizione e urlava con loro. Capii di essere stato un bastardo e un egoista di prima categoria, ma era ormai troppo tardi e Bella scoppiò mandandomi via, esasperata dal mio comportamento.



“Non ti sopporto più Edward. Non ti sopporto. Vattene! Vai in missione, prendi il tuo dannato aereo e vai via. I bambini hanno paura di te. Non prendi in braccio Alice neanche se piange durante la notte. Lasci che ti credano un pessimo padre e ti interessano solo le tue missioni. Io sono sfinita. Non posso lavorare e occuparmi dei bambini, della casa e anche dei tuoi cazzo di sbalzi d’umore. Hai scelto tu di stare a casa, nessuno ti ha obbligato, nessuno ti ha detto di fare qualcosa per noi. Abbiamo tre bambini Edward, tre splendidi tesori che vorrebbero solo essere amati e voluti dal loro padre. Sono tua moglie e mi tratti come se fossi una concubina. Se questo vuol dire averti a casa, vattene. Non voglio un uomo che sia cattivo. Non voglio un robot. Non voglio neanche doverti difendere con i bambini. Se quello che ti serve per stare bene è la missione, vai! Parti! Stai via tutto il tempo che serve e fai il tuo cazzo di lavoro! Ce la caviamo bene anche senza di te. Sparisci e schiarisciti le idee!”



Si chiuse in camera con i bambini e io mi fiondai nella camera adibita a biblioteca e ufficio e vi restai per tutta la notte. L’alba mi trovò sveglio e determinato, ma nel modo sbagliato. Presi il borsone e lo zaino e me ne andai. L’ennesima missione, questa volta cercata e voluta, l’ennesimo impiego che mi portava lontano da casa. Mi presentai alla base militare chiedendo di poter parlare al generale Milton, l’avevo convinto a farmi partire e mi ero beccato la ramanzina riguardo alla sicurezza e all’iterazione dei miei problemi con la mia concentrazione. Avevo pensato che mi facesse bene partire, che mi facesse pensare, che dopo solo tre mesi e mezzo avrei avuto le mie due settimane di licenza e sarei tornato a casa volentieri. Invece i giorni si susseguirono frenetici e preoccupanti anche per noi che eravamo laggiù e non ebbi il tempo di schiarirmi le idee. Ero a capo della mia squadra e dovevo portarli a casa tutti vivi. Le settimane diventarono mesi così lentamente che sembrava di non vedere mai l’alba del giorno dopo arrivare. Quando i miei superiori mi mandarono in licenza per due settimane non tornai a casa mia, raggiunsi i miei genitori in Florida perché a mio padre la malattia gli aveva strappato la speranza di una vecchiaia lunga e felice. Quando tornai in Iraq avevo quella sensazione di essere imbattibile che coglie chi si fa pervadere stupidamente dalla rabbia verso tutto e tutti, mi comportavo come se fossi il tipico stronzo prepotente e presuntuoso, i miei sottoposti mi guardavano con timore e in cielo ero pericoloso non solo per i miei compagni, anche per me stesso. I mesi si trasformarono in un tempo lunghissimo. La missione in Iraq durò in totale dieci mesi e mezzo, quando i miei superiori mi mandarono a casa e sostituirono la mia truppa non tornai a casa mia, avevo bisogno di riprendere in mano la mia vita e stare vicino a mia madre che da qualche giorno aveva perso il suo compagno di vita. Passai due lunghi e infiniti mesi accanto a lei, cercando di fare ordine in me stesso e di capire cosa stavo facendo. Chiamai Bella un paio di volte, telefonate fredde e distaccate, solo per farle sapere che stavo bene e che desideravo stare vicino a mia madre in quel momento. Non abbiamo mai avuto un vero rapporto, mio padre ci ha sempre tenuto a mantenere le distanze dalla famiglia che mi ero costruito, dalla vita che avevo scelto di percorrere. Era conscio, in qualche modo, che sarei riuscito a rovinare ogni cosa bella che si sarebbe posta sul mio cammino. Aveva ragione.
Bella, in qualche strano modo, capì la mia necessità o forse si era davvero stancata del mio egocentrismo e del mio lavoro, semplicemente.
Dopo il quarantacinquesimo giorno di vacanza, il Generale Milton mi chiamò, il capo del plotone che ci aveva sostituiti in Iraq era caduto in missione e serviva un sostituto che portasse a termine la missione, un colonello che sapesse il fatto suo in aria e che fosse capace di guidare a casa tutti quanti. Preparai il bagaglio e tre giorni dopo ero su un volo che mi riportava in Iraq per altri dodici difficili mesi. Non ci fu nessuna licenza, rifiutai di tornare a casa e restai concentrato sui miei obiettivi. I giorni sembravano sempre uguali, trascorrevano apparentemente lenti e infiniti quando dovevamo affrontare i pericoli nei cieli, ma quando ti trovavi di fronte al calendario alla base restavi sorpreso nel constatare che il termine di quella missione era sempre più vicino.

«Signore, si sente bene?» La donna seduta al mio fianco mi scuote il braccio mentre io mi affloscio su me stesso con la testa tra le mani. Annuisco debolmente e stringo quell’album di foto sospirando.

Ho perso ogni cosa di questi due lunghi anni. I compleanni dei bambini, di mia moglie; due Natali, due anni di scuola, due anni di vita e due anni di matrimonio. Ho perso tutto. Ma non me ne accorsi, o più probabilmente non lo consideravo davvero importante per me, fino a quando non arrivò un pacco indirizzato a me alla base militare. Era la prima volta, in due anni, che ricevevo posta. I miei compagni mi guardavano desolati ogni sera, quando si elencavano i colleghi che avevano una lettera, un pacchetto, ed io ero sempre l’unico a non avere nulla. Non ho mai detto loro di aver lasciato a casa una moglie e tre figli, non ho mai mostrato una più piccola debolezza, nessuno sapeva nulla del mio privato. Ripetutamente, ogni giorno di posta, tutti mi guardavano, mi lanciavano occhiate curiose, dispiaciute, come se davvero gli dispiacesse per me. Due anni di missione lontano da casa e mai nessuno aveva pensato di scrivermi. Il profumo di una lettera che puoi toccare, un pezzo di carta su cui sono state scritte con l’inchiostro parole d’amore e di speranza, di gioia, serenità, tristezza; quando sei lontano, tutto questo, ha un altro profumo, un altro sapore. È tutto diverso. È magico. Vedevo i miei sottoposti o i miei colleghi scartare con un sorriso soddisfatto ed emozionato quelle lettere, le conservavano con il cuore, come se fossero pezzi importanti, preziosi. E io, che non ricevevo nulla se non sguardi di compassione, li avevo sempre definiti dei deboli, inadatti a svolgere quel lavoro. Non capii mai quanto fossero importanti quei dannati pezzi di carta, fino a quella sera.
Erano tutti attorno a me, curiosi di scoprire il contenuto di quel pacco.
Scartai la mia posta nella sala comune, stupito io stesso.

«E così il boss non ha mai avuto posta ed ora si becca un pacco delle dimensioni di una cassa piena d’acqua potabile!»
«Ci sarà una bambola gonfiabile!» Scherzavano attorno a me, anche se ero un loro superiore.


Quando l’aprii ammutolirono tutti di colpo. Tirai fuori il primo disegno raffigurante un aereo verde con un omino dentro, in basso sul foglio una casa piccola, con quattro persone disegnate nel giardino e il nome di Alice dietro al disegno. Una nota era stata scritta in corsivo e in matita da Bella.

«Questa settimana ho spiegato a Alice che lavoro fa il suo papà. Orgogliosa e felice ti ha immaginato mentre ci saluti dal cielo. L’abbiamo disegnato a quattro mani, ovviamente, ma fai finta che sia solo suo, è davvero orgogliosa e testarda. Ti somiglia sempre di più.»

Le voci ricominciarono, sentii i ragazzi porsi qualche domanda, quelli nuovi più curiosi, i veterani, che con me avevano condiviso più missioni, si lasciavano andare con qualche sillaba. Il pacco era grande perché conteneva due anni di vita della mia famiglia. Disegni, fotografie, lettere, fotocopie delle pagelle dei più grandi, piccoli pezzetti importanti che non mi sarei mai voluto perdere.
E invece li avevo persi. Erano fumati via e io non ero lì, non ero presente.
Solo quella sera mi resi conto di quanto fossi stato lontano, di quanto fossi stato un estraneo per quella famiglia.
Risposi con una mail, emozionata e confusa, preso ancora dalla commozione per quell’inaspettato dono.

«Oggi è arrivato il vostro pacco. Grazie infinite. Non so come ringraziarvi per questo dono. Lo conserverò con cura e… mi dispiace di essermene andato, di essere stato via così tanto. Mi dispiace. Spero di tornare a casa presto. Mi mancate. Vi amo.»

A ripensarci non era stata una mail grandiosa, difatti non ho avuto risposta. Avrei potuto chiamare a casa, parlare con Bella e chiederle scusa, mi sentivo mortificato. Invece le scrissi solo quella dannata mail sconclusionata.
Lei non rispose neanche nelle settimane seguenti. Provai a scriverle diverse volte, quando la linea permetteva e non ero troppo stanco. Lei non rispose mai.
Nel frattempo la missione del mio plotone finì e io ero pronto per tornare a casa a chiedere scusa in ginocchio.
Non so cosa aspettarmi, non so cosa troverò, se li troverò, ma desidero con tutto il cuore che sia più semplice di quello che immagino, che possano perdonarmi, che non debba starmene in albergo perché non mi vogliono con loro.
Due maledetti anni. Sono stato via due anni.
Quante cose cambiano in due anni? Ho lasciato Alice a undici mesi e ora ha tre anni. Cammina, parla, corre, disegna.
La cosa che mi rammarico di più è di aver lasciato mia moglie da sola. La donna che ha sempre detto di non avere forza di aspettarmi e che ad ogni mio ritorno era lì, con le braccia aperte.
Questa volta non sono certo che sarà così. Questa volta la casa potrebbe essere vuota, fredda e triste.


Perso nei miei pensieri non mi accorgo del resto del volo, fino a che, finalmente, atterriamo. Non avrei mai pensato di dirlo. Mi affretto a scendere dall’aereo, a ritirare i bagagli e ad accendere il cellulare. Chiamo la base militare, confermando il mio arrivo e prendendo appuntamento per l’assemblea di rientro. Tutti gli altri compagni partiranno dopodomani con un volo militare, io avevo richiesto un biglietto privato per tornare a casa prima. Un paio di giorni non era nulla ai loro occhi, lo sapevo, ma ero talmente agitato che anche solo ventiquattro ore sarebbero state impossibili da passare lontano. Il generale Milton ha chiuso un occhio perché non avevo preso nessuna licenza durante la missione. Fuori dall’aeroporto chiamo un taxi che mi porta a casa.
La staccionata bianca è ancora al suo posto, l’erba ben tagliata e qua e là sono disseminati oggetti colorati che sembrano i giochi del nostro fidato Murphy. Il dondolo, ormai segnato dal maltempo e dagli anni, se ne sta ancora al suo posto sotto il portico. Mi avvicino alla porta d’ingresso e maledico silenziosamente la mia organizzazione penosa che mi ha fatto nascondere le chiavi sotto ai vestiti nel borsone. Suono, nonostante siano le nove di sera e i bambini possono dormire. Dall’interno, però, arrivano grida.

«Alice finiscila di frignare e mettiti a letto. Rosalie raccogli i giocattoli e mettili a posto e tu Emmett, per carità di Dio lavati i denti e poi scendi a finire i compiti!»
Suono ancora una volta ma proprio nell’attimo in cui pigio sul campanello una delle mie principesse scoppia a piangere e sento un frastuono provenire dal piano superiore.
«Basta! Finitela tutti e tre! Alice lascia immediatamente la bambola di Rosalie. Emmett fila di sotto.» Scampanello più volte e alla fine Bella risponde con un urlo che mi farebbe battere in ritirata se non fossi così ansioso di abbracciarla.
«ARRIVO! FINISCILA DI SUONARE, CHIUNQUE TU SIA!» Non posso fare altro che ridacchiare riconoscendo la sua forza, impertinenza e la sua boccaccia che amo.
«Dannazione ragazzi, mi avete sfinita! Quando torna vostro padre vedrò di farvi mettere in punizione a vita!» Un coro di no si leva dal piano superiore e, subito dopo, sento i passi di Bella scendere le scale. Viene ad aprire la porta, ma grazie alla catenella si apre solo uno spiraglio. «Merda!» Dice chiudendo di fretta e spalancando un secondo dopo la porta. «Che ci fai qui?» Scoppio a ridere per la sua faccia sbigottita e gli occhi lucidi, lascio cadere il borsone a terra insieme allo zaino e volo a prenderla tra le braccia.
«Dio, quanto mi sei mancata!» Si stringe al mio corpo, le sue mani mi spingono ancora di più verso di sé.
«Oh mio Dio! Sei qui! Sei qui!» Le sue dita si stringono sul giubbino, sento la pressione fin sulla pelle dalla forza che imprime, come se volesse fondersi con il mio corpo. Vorrei dirle milioni di cose, baciarla, stringerla, stenderla sul pavimento e fare l’amore con lei fino a svenire; l’unica cosa che mi riesce bene, invece, è baciarle il collo e strofinare il naso sulla sua pelle riempiendomi, in questo modo, i polmoni del suo meraviglioso profumo, tenendola stretta. Ho paura che possa scappare da me, che possa allontanarsi e allora non so se sarei in grado di respirare ancora. Non mi accorgo di nulla se non del suo corpo che morbido si appoggia al mio riscaldandomi il cuore. In quel momento urla di ogni sorta giungono attorno a me, sei braccine delicate si aggrappano alle mie gambe e mi stringono, due zampe mi spingono sulla schiena. Bella non parla, mi stringe e basta, come faccio io d’altro canto. Sento, però, il collo umido dove il suo viso si appoggia… piange.
«Papà!»
«Papà, sei tornato!»
«Papà!» Le tre vocine si sovrappongono, urlano e ripetono la stessa cosa un numero di volte imprecisato, lascio mia moglie per inginocchiarmi all’altezza dei miei tre puffetti. Mi si stringono al collo con forza e sento le loro lacrime bagnarmi la maglietta. Chiudo gli occhi e mi beo di tutto il fiume di sensazioni che mi si scaglia addosso con forza inaudita. È più forte di una ventata di aria fredda nell’inverno più torrido. Sento a turno i miei ragazzi baciarmi le guance più volte e in quell’esatto momento alzo gli occhi su Bella che tiene fermo Murphy e piange a dirotto. Le sorrido, temo che le sue lacrime non siano solo di gioia e che possa sbattermi fuori senza se e senza ma. Lei, sorprendentemente, ricambia il sorriso un po’ frastornata.
«Bambini fate respirare papà. Forza. Facciamolo sedere sul divano!» Prendo le mie cose e le adagio all’ingresso, chiudendo poi la porta e facendomi trascinare da tre manine e un cane scodinzolante verso il divano. Prendo Alice e Rosalie a sedere sulle mie gambe e Emmett si siede al mio fianco, gli scompiglio i capelli e gli lascio un bacio sulla testa, poi accarezzo i capelli delle mie principesse e bacio le loro guanciotte e i loro nasini. Tengo costantemente un braccio sulle spalle di Emmett, per non farlo allontanare e per chiuderli tutti e tre in un grande abbraccio condiviso. Quando partii, due anni fa, non avrei mai creduto potessero mancarmi così tanto, invece ora sono qui, con il petto che si sta aprendo da quanto dolore e emozione si agita all’interno.
«Siete diventate grandissime e bellissime!» Mi abbracciano stretto e Emmett posa il capo sul mio petto mormorando quanto gli sono mancato.
Bella si accomoda sul tavolino davanti a noi e sorride dolcemente, accarezza il nostro cane che scodinzola felice e leggo, nei suoi occhi, tutta la tristezza e l’amore che si è portata dietro in questo tempo. La mia donna forte e combattiva, mia moglie.
«È passato un sacco di tempo…» Mormora con voce debole ed emozionata.
«È riduttivo dire così. È passata un’infinità di tempo. Due lunghissimi anni.» La guardo, facendole capire che non ho intenzione di sorvolare sull’argomento, non temo il confronto e non ho intenzione di seppellire questi due anni come se non fossero esistiti. So quali sono i miei sbagli e sono pronto ad assumermene la responsabilità se vuol dire stare al loro fianco per sempre. Alice ha il colore dei miei occhi, ma sono grandi e luminosi come quelli della mamma. Mi scruta sorridente e orgogliosa, con due lacrimoni che continuano a scendere sulle guance, cerca di toccare più pelle possibile, mi chiede milioni di cose a cui rispondo tremante. Rosalie è ancora più bella che nelle foto, con i suoi capelli lunghi e il faccino birbante. Emmett, invece, non parla e si gode il semplice fatto che io sia qui. Lui è quello che ne ha risentito di più, ne sono certo; era grande abbastanza per capire quello che accadeva a casa, la tensione, il mio egoismo e la mia partenza. Li ho abbandonati per due anni. Quale padre si comporta così?
«Vuoi mangiare qualcosa? Hai sete? Posso…» Bella si alza e io le sorrido.
«Non voglio niente. Stai solo qui, davanti ai miei occhi.» Così che possa respirare ancora.
I bambini mi chiedono più volte le stesse cose, sovrapponendosi con le loro voci: dove sono stato, cos’è successo, perché non sono tornato prima, quanto resto a casa. Io chiedo scusa, ogni secondo, chiedo loro di perdonarmi per non essere tornato prima, per essere scappato. Lo faccio parlando ma anche tenendoli stretti, baciandoli, mantenendo il contatto. I loro corpicini mi riempiono il cuore d’amore e le loro voci permettono al cuore il ritmo normale. Pensavo di trovarli arrabbiati e furiosi, pensavo che Alice neanche mi riconoscesse e che avessero cercato di dimenticarmi e andare avanti comunque. Invece li ho ritrovati più innamorati che mai.
«La mamma ci ha raccontato tante cose, ci ha detto che ogni sera le mandavi una mail e le dicevi che ti mancavamo e che ci pensavi tanto. Ci ha detto che non potevi telefonare perché era un posto brutto e che i telefoni non prendevano. E poi sappiamo che ti ha mandato tutti i nostri disegni e anche le nostre fotografie. Papà ci sei mancato! Non andare più via!» Dice Emmett mentre si stringe ancora più forte a me; non posso fare a meno di voltare il capo verso mia moglie che mi lancia un’occhiata disperata.
Lei è la donna migliore che conosco, ora ne sono certo.
«Anche voi mi siete mancati! Tanto, tanto, tanto!» Sospiro a lungo, mi sento stanco e l’ora della nanna è passato da un pezzo per loro. «Che ne dite se andiamo a dormire? È tardi e sono davvero stanco!» Mi si stringono al corpo in un coro di protesta. Resto abbracciato a loro, godendomi il calore e l’affetto dei loro corpicini per un altro po’.
«Domani stai tutto il giorno con noi?» Chiede Emmett con la voce strozzata.
«Tuttissimo!» Bacio le loro tre testoline e mi alzo, tenendo tra le braccia solo Alice e accompagnandoli di sopra. «Non me ne vado più, promesso.»
«Ti preparo qualcosa da mangiare nel frattempo.» So che è solo perché si vuole tenere impegnata, non ho fame e lo sa bene che ho cenato durante il volo, ma non mi oppongo. Rimbocco le coperte a tutti e tre i miei angioletti e spengo la luce della loro camera, per il momento dormono ancora tutti assieme, ma provvederemo a sistemare la casa per avere più spazio. Adesso, però, è il momento di andare di sotto a fare i conti con i miei errori.
Bella sta girando qualcosa in una pentola, tiene lo sguardo fisso sul cibo senza voltarsi, anche se mi ha sentito arrivare. Mi avvicino stringendole le braccia attorno alla vita e immergendo il naso tra i suoi capelli. Pesca. Aria di casa.
Lei però si irrigidisce e mi scosta.
Come ho detto, devo fare i conti con i miei sbagli.
«Chiederò scusa anche in turco, camminerò sopra i ceci tostati e ti farò anche strappare i peli dal mio corpo se ti va, farò quello che vuoi ma per favore, perdonami.»
«Perdonarti? Per cosa?» Dice acida.
Oh Bella, amore mio!
«Perché sono uno stronzo di dimensioni epiche, perché sono un coglione, perché me ne sono andato e vi ho abbandonati… perché sono così deficiente da non avervi scritto, io vi ho abbandonati. Mi sono reso conto quanto sia stato stronzo solo quando quel pacco è arrivato. Tu mi avevi cacciato ma… mi sono accorto di cosa davvero era successo solo quando ho aperto quella scatola.»
«Dopo due anni!» Sbotta lanciando il cucchiaio nel lavello e producendo un suono stridulo. Si volta verso di me. «Due fottuti anni senza tue notizie, senza una cazzo di mail, senza una telefonata. Sono rimasta da sola Edward. Mi hai abbandonata ma soprattutto hai abbandonato i bambini! Ho fatto fatica a inventarmi qualcosa di bello quando volevo solo scagliarti giù da un burrone! Ogni volta che piangevano, che chiedevano di te, che dovevo assolutamente parlargli bene del loro papà perché nonostante tu fossi stato cattivo e intrattabile loro ti amano, io pensavo a come ucciderti!»
Cazzo.
«Sono qui, prendimi a pugni.» Dico ingoiando il magone che ho in gola.
«Dio, mi fai una rabbia.»
«Mi prenderei a pugni da solo se potessi.»
«Beh, se mio padre fosse in forze ti darebbe tanti di quei calci nel culo da rispedirti in Iraq.»
«Non voglio tornare in missione. Dopodomani devo andare alla base militare e mi congederanno. Niente più missioni. Posso decidere di svolgere incarichi alla base militare e tornare a casa ogni sera o posso scegliere di essere escluso completamente dall’esercito. Valuteremo insieme cosa fare da qui in poi.»
«Stai dicendo sul serio?» Mi guarda contrariata e titubante, ma gli occhi sono lucidi e brillano con il riflesso del neon della cucina.
«Guardami negli occhi.» I suoi occhi color cioccolata liquida si intrecciano ai miei. «Ti amo Bella. Ti amo da impazzire. Sono passati due anni ed ho cercato di dimenticare, di concentrarmi sul mio lavoro, di pensarvi con il contagocce perché faceva male. Sapevo che avevo sbagliato ma me ne sono reso conto forte e chiaro quando ho aperto quel pacco. Ho visto l’impatto delle conseguenze solo allora. Sono stato un egoista del cazzo, sono partito nonostante tutto e mi sono comportato da psicopatico quando ero qui.»
«Già, sei sicuro che non ricapiterà?»
«No! Non è possibile. Perché vi amo immensamente e perché siete tutto quello che voglio. Tutto Bella. Dovevo solo capirlo.»
«Non ti credo.» Scoppio a ridere, ero certo che l’avrebbe detto. Spegne il fuoco sul fornello e  incrocia le braccia sul petto guardandomi malamente. Mi inginocchio ai suoi piedi, le afferro i fianchi e la porto verso di me. Bacio il suo stomaco, le accarezzo il sedere e riesco a farla ridere quando mugolo di piacere nel riprendere confidenza con il suo corpo.
«Credimi. Perché voglio stare con voi. Per sempre. Voglio vivere la nostra vita, voglio godermi il nostro matrimonio e voglio amarti. Voglio vedere i bambini crescere e portare a spasso Murphy e voglio disperatamente un altro figlio. Un maschietto. Voglio svegliarmi di notte e cullarlo, starti vicino in sala parto, alzarmi alle tre di notte perché hai voglia di gelato. Voglio la nostra vita, quella che ho perso fino ad ora perché sono stato troppo stupido per accorgermi di avere qualcosa di meraviglioso. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo all’infinito.»
Mi stringe forte al suo corpo e le lacrime lasciano i suoi occhi per scendere sulle guance rosse, velocemente.
«Ti amo anche io.» Dimentichiamo la cena, per altro inutile; corro in camera da letto con Bella tra le braccia, chiudo la porta alle mie spalle e spero, in cuor mio, che i bambini siano troppo stanchi per svegliarsi. La spoglio di fretta e lei mormora parole poco comprensibili mentre cerca di spogliarmi e baciarmi con passione sfrenata.
«Sei bellissima, ancora più bella di quando me ne sono andato!»
«Non dire cazzate! Sono distrutta, troppo magra e stressata. Hai fatto tre figli indemoniati!»
«Li metteremo in riga. E ti farò mangiare. Sei troppo magra!» Non abbiamo mai parlato troppo durante il sesso, ma sono due cazzo di anni che siamo lontani, dobbiamo recuperare.
Noto i cambiamenti del suo corpo, la sua pancia piatta, senza un filo di ciccia, le sue gambe troppo esili e le braccia ugualmente scarne. Il seno resta all’interno di una mia mano, come prima della gravidanza. Il suo corpo cambiato grazie alla maternità mi manca parecchio. Adoravo stringerle i fianchi, morderle il seno e sentire le sue cosce stringermi mentre spingevo dentro di lei.
«Ti prego, mangia.» Scendo lungo il suo corpo, mordendo e leccando ogni singolo centimetro della sua pelle candida.
«Ti pare semplice? C’è sempre un disastro da sistemare, un bambino da controllare, una crisi da evitare. In più per mesi dopo che te ne sei andato ho fatto fatica a mettere qualcosa nello stomaco.» Le sue mani toccano le mie spalle, si fermano a controllare e tastare le mie nuove cicatrici, quelle che si è persa in questo periodo.
«Mi dispiace. Mi dispiace da morire.» Le bacio la pancia, le lecco l’ombelico e lei ansima di piacere. «Voglio farmi perdonare, voglio farmi amare da voi come se ci fossi sempre stato, non voglio più perdermi nulla.» Quando incontro il ciuffo di peli castano inspiro a fondo. Il suo profumo di donna mi è mancato infinitamente.
«Ci sono state altre donne mentre eri in missione?» La sua titubanza nel tono della voce è chiara e limpida per me. Alzo la testa di scatto e la fisso negli occhi.
«Mai.» Mi sporgo per baciarla sulla bocca e appoggiare la fronte sulla sua, reggendomi con le braccia sul suo corpo, per non pesarle. «Me ne sono andato e sono stato uno bastardo, ma non ti ho mai tradita. Mai. Mi credi?» Non avevo idea di come mi sarei sentito se la risposta fosse stata negativa. «Dimmi che mi credi.»
«Ti credo. Neanche io ho avuto nessuno. Il tizio del supermercato e il commercialista hanno tentato di invitarmi fuori a cena spesso, ma ho sempre rifiutato e non ho mai dato loro modo di pensare che fossi interessata.» Sapere che qualcuno ci aveva provato con mia moglie mi faceva infuriare. Divento pazzo e marco la mia proprietà: mordo, lecco, stringo e i suoi gemiti si fanno sempre più forti e controllarli diventa impossibile.
«La mia mano destra è stata la mia unica fonte di piacere per due anni. Quando ero sotto alla doccia pensavo a te che ti insaponavi o che ti piegavi per prendere qualcosa a terra e quel tuo culo favoloso sventolava davanti ai miei occhi. Altre volte immaginavo di trovarti al mio ritorno a casa con solo un completino di pizzo nero e tacchi vertiginosi ai piedi. Le seghe migliori sulla faccia della terra.» La faccio ridere mentre le mordo il fianco e scendo giù per assaggiarla.
Quando dopo due orgasmi, provocati grazie alla mia bocca, risalgo lungo il suo corpo e mi adagio su di lei mi sorride e stringe le mani dietro il mio collo.
«Mi sei mancato, Marines!» Era diventato, negli anni, il mio soprannome, non mi arrabbiavo più perché era una cosa speciale: un pezzo di passato che restava ancorato al presente e rendeva tutto particolare, emozionante, vero. Ci ricorda da dove siamo partiti e quanta strada abbiamo fatto insieme, è il nostro legame.
«Anche tu, piccola.» Entro dentro di lei con una spinta, leggero per non farle male e per non impazzire completamente. Chiudo gli occhi nonostante voglia perdermi nelle sue pupille color cioccolato. Le sensazioni, dopo due anni, sono troppo forti, amplificate, portate all’estremo. Non riesco a ragionare, il mio corpo si muove spinto solo dal desiderio di raggiungere l’estasi. Spingo, spingo, spingo fino a impazzire; sento le sue pareti stringersi a me e la sento contrarsi mentre io mi gonfio fino a esplodere dentro di lei. Ansimiamo, i respiri sono pesanti e le nostre dita sono intrecciate sopra le nostre teste. Non ricordo neppure come siamo riusciti ad afferrarci le mani e ad intrecciare le gambe, sentivo soltanto il suo corpo, i suoi seni premere sul mio petto e la sua bocca gemere nel mio orecchio. Era stato veloce, emozionante, potente.
«Non andartene mai più.»
«Non lo farò.»
«Se ti manca pilotare puoi sempre noleggiare un elicottero e portarci i bambini quando saranno più grandi. Gli piacerebbe, ne sono sicura.»
«Dici?»
«Ti amano, sono orgogliosi di te.»
«Solo grazie a te.» Non dice nulla, si stringe forte contro di me e bacia la mia pelle sudata. Poi dopo un po’ riprende a parlare.
«Non andartene mai più.»
«Te lo prometto.»
«Puoi comprarti una moto se vuoi sentire l’aria sulla pelle.»
«In aereo non senti l’aria addosso. Ti senti potente, puoi volteggiare, sorvolare vasti paesaggi e ammirare i colori dall’alto. Puoi proteggere. Puoi vincere la forza di gravità. È completamente un’altra cosa. Non senti l’aria.»
«Meglio, troppa aria potrebbe irritarti la pelle.» Scoppio a ridere seguito da lei. Poi mi ricordo cosa volevo disperatamente dirle.
«Nel volo di ritorno c’era un’hostess che ci ha provato disperatamente con me.» Le strizzo l’occhio sorridendo. «Ho chiesto un succo di frutta e lei mi ha detto che sono più tipo da tre dita di Whiskey!» Ride appoggiando la testa alla mia spalla, il suo corpo scosso dalle risate mi rende felice.
«Immagino che sia stato come un salto nel tempo.» Risponde con la voce ancora un po’ arrochita.
«È stato un modo per aprire la porta ai ricordi.» Le rispondo dolcemente, accarezzando il suo fianco nudo con la mia mano callosa e ruvida, la sua pelle delicata si ricopre di brividi. «Se ripenso a come tutto questo ha avuto inizio mi rendo conto che da ragazzo ero molto più sveglio, non facevo errori come andarmene lontano da te.»
«Ero io quella che scappava al tempo.»
«Ma sei tornata.» Mormoro baciandole la fronte.
«Anche tu.» Appoggia la sua mano delicata sul mio petto, dove il mio cuore batte ad un ritmo forsennato.
«Sai, non hai risposto alla mia lettera.» Dice alzando la testa e poggiando il mento sulla mia spalla. La guardo smarrito.
«Che lettera?»
«Quella dentro l’album di fotografie che ti ho mandato.» Stupito di non averla trovata e ansioso di leggerla infilo i boxer e scendo per le scale di corsa, dal mio borsone tiro fuori l’album e, in meno di tre minuti, sono di nuovo sotto le coperte del nostro letto con lei al mio fianco. Apro l’album di foto e scorro velocemente le pagine, ma della sua lettera non c’è traccia. Solo alla fine lei volta l’ultima pagina, quella completamente vuota e lì, nascosta dentro una strana tasca della copertina dell’album, fa bella mostra di sé una busta sigillata. La apro con le mani che tremano e lei cerca di strapparmela.
«Dovevi leggerla quando eri lontano.» Sbotta con le guance rosse.
«La leggo adesso, che differenza fa?»
«Ora sei qui, non voglio che ripercorriamo di nuovo quei momenti, voglio andare avanti.» Protesta pizzicandomi un fianco. «Voglio baciare la tua pelle, leccarti, sospirare nel tuo orecchio… Ehi!» Nonostante le sue parole ho aperto la busta e tirato fuori la lettera.



«Amore,
sei così lontano che sembri irraggiungibile. Quando ho sentito la tua voce al telefono mesi fa, mentre eri da tua madre, ho percepito con chiarezza il distacco che hai messo tra noi. Noi, la tua famiglia. Capisco quanto il tuo lavoro sia importante e capisco, realmente lo capisco, quanto quel periodo prima della tua partenza sia stato inaccettabile e stressante per un soldato come te. E ti ammiro per questa tua devozione e questo amore per il tuo lavoro, ma vorrei aver avuto la capacità di farti star bene a casa, di darti quello che ti mancava e di farti sentire importante come ti senti in aria con il tuo velivolo potente e veloce. Non ne sono stata capace ed ho finito per rendere tutto ancora peggiore per te. Pensavo che da un momento all’altro arrivasse a casa un avvocato con le tue disposizioni per il divorzio e mi sentivo di merda, piena di terrore, angosciata. Ma questo silenzio da parte tua è ancora peggio. La tua voce ha sempre avuto la capacità di rilassarmi, un tuo abbraccio sistemava ogni cosa e i tuoi occhi così profondi e limpidi mi hanno sempre mostrato un futuro insieme. Quando sono con te mi sento protetta, amata, forte e invincibile. Ora, guardo quel dondolo che orna il porticato di casa e mi chiedo se dovrò passare i miei anni futuri a cercare di dimenticarti. Mi sento così abbattuta, Edward, che faccio fatica anche a tenere in mano questa penna. Vorrei solo piangere e disperarmi a lungo, ma i bambini mi riempiono la vita e mi ricordano te ogni secondo della mia giornata, per fortuna. Vorrei tanto averti al mio fianco, sapere che ci sarai sempre a risolvere i problemi e avere la certezza di potermi appoggiare a te se qualcosa è troppo difficile. Invece, la notte vado a dormire stanca e desolata, in quel nostro letto freddo e vuoto; mi rannicchio di fianco alla tua parte fredda, con il tuo cuscino tra le braccia che ormai ha perso il profumo della tua pelle e mi chiedo se mi pensi, se ti manco… se mi ami ancora. So che come lettera fa schifo, sono emozioni confuse che fanno a pugni tra loro e vogliono disperatamente essere messe nero su bianco, chiedono solo di farti sapere quanto sto male e quanto vorrei averti qui. Chissà se un giorno tornerai. Probabilmente mi arrabbierò, ma ti perdonerei nell’arco di un battito di ciglia, perché la verità, amore mio, è che senza te non respiro.
Ti amo, per sempre tua,
Bella.»



Alzo gli occhi dal foglio di carta per poggiarli su mia moglie, piange ma non si allontana da me e non sposta gli occhi dal mio viso. I miei occhi sono colmi di lacrime e il cuore è sgretolato per l’ennesima volta dentro al mio petto. Solo lei è capace di rimetterlo a posto e il suo sguardo carico d’amore è la colla che riesce, pian piano, a ricostruirlo.
«Non è colpa tua, niente di ciò che è successo è colpa tua. Sono stato un cretino a non capire prima quali fossero per me le priorità. Ora lo so, si tratta solo di riorganizzare la mia vita e farmi perdonare da voi.»
«Te l’ho già detto Edward, sei già perdonato, ma non lasciarci mai più.»
«Mai.»
«So quanto è importante il tuo lavoro, ma quando sali su quell’aereo e voli via da me, da noi, ho paura che tu possa non ritornare più. Vorrei che ti bastasse stare qui con noi, che il tuo lavoro fosse più semplice, che amassi il mio profumo così tanto da non dovertene separare mai più.» La guardo negli occhi, come se potessi trovare la cosa giusta da dire dopo un’ammissione così da parte sua. Ma le parole giuste non riescono a trovare il percorso per uscire fuori, così la bacio a lungo, stringendola forte al mio fianco e accarezzandole il corpo, mostrandole quanto la amo con quei gesti.
Immagino una vita piena del profumo dei miei bambini, del rumore dei giocattoli che vengono sparsi ovunque per casa, le grida delle liti che poi, facilmente, si trasformeranno in pianti. Penso alle coccole sul divano che potrò fare ai miei figli, con Bella stretta a noi in un abbraccio caldo e immenso. Penso ai baci affettuosi che potrò donare ai miei tre angeli prima di andare a letto, alle favole da raccontare, le coperte da rimboccare. Penso a tutto quello che posso evitare di perdermi, quello che arricchirà la mia vita da questo momento in poi. Il profumo di Bella, quello della sua pelle quando faremo l’amore tutta la notte. Immagino come potrò sentirmi importante, utile e amato dentro questa casa e sorrido mentre la bacio.
Potrei volare nella mia zona diventando un addestratore, potrei anche entrare all’interno di qualche società privata di trasporto e stare fuori solo qualche giorno al mese per qualche consegna. Potrei anche cambiare vita e comprarmi davvero una motocicletta per sentire il brivido e l’adrenalina potente di avere un mezzo da controllare che sfreccia e fende l’aria inarrestabile. Non sarà come volare, ma può essere un’alternativa. Potrei fare qualsiasi altra cosa, non so cosa decideremo per il nostro futuro. Quello che so per certo è che voglio farlo qui, con la mia famiglia, a casa mia. Mi stacco dal bacio prendendole la testa con le mani e rotolando sopra di lei, pronto per una nuova avventura. La guardo negli occhi, prati verdi e fonduta di cioccolato si legano parlandosi.
«Amore mio, sono tornato e non parto più; sapere che mi hai perdonato e che mi ami così tanto è l’unica cosa che importa. Ti prometto che farò di tutto per renderti felice da qui in avanti. Ci ho messo un po’, ma finalmente l’ho capito. Senza di te al mio fianco non sono nulla. Non sono felice, non sono sereno, non sono concentrato, non sono l’uomo che dovrei essere. Mi sento soffocare. Tu invece… tu sei tutto, sei il mio ossigeno, la mia aria pulita e vitale. Te lo prometto, amore mio, niente più cieli a dividerci, piccola!»



The End

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